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Ipersessualizzazione delle donne nello sport: la scelta delle ginnaste tedesche

Ipersessualizzazione, una piccola definizione:

l’attenzione completa sulle caratteristiche erotiche e sensuali della persona, a svantaggio di altri aspetti, qualità e competenze.

Per quanto tempo ancora le atlete donne dovranno essere considerate come inferiori rispetto ai colleghi maschi? Per quanto tempo ancora dovranno essere considerate delle dilettanti anche in campo internazionale? Quanto dovremo aspettare prima che le sezioni femminili degli sport di squadra cessino di essere considerate delle brutte copie o delle versioni facilitate delle competizioni maschili? Quando gli sponsor cominceranno a investire sulle atlete per il loro valore sportivo e umano invece che sulla loro avvenenza?

La ginnasta tedesca Pauline Schäfer proprio ieri ha pubblicato su Instagram una foto che è uno schiaffo a questo sistema ancora fortemente maschilista. L’atleta è con le sue compagne di squadra, tutte sfoggiano orgogliosamente il loro outfit per Tokyo 2020:

un body a gamba lunga.

Non si tratta nemmeno di una provocazione o di una protesta, ma della rivendicazione di un diritto previsto dallo stesso regolamento. Sin dai livelli pre-agonistici leggiamo che è possibile indossare calze, fuseaux o coulotte oltre il body, purchè di identico colore: per rispettare i colori di rappresentanza della squadra, e per rendere quanto più visibile ai giudici l’atteggiamento del corpo nei vari elementi delle routine.

Del resto, la tuta lunga è già usata dalle “cugine” della ritmica.

La scelta di indossare un body a gamba lunga è quindi un atto consapevole di autodeterminazione da parte delle ginnaste tedesche: basta ipersessualizzazione, basta mercificazione dei corpi delle sportive e delle donne in toto.

Non è un caso isolato.

Già nel mese di aprile la ginnasta Sarah Voss, 21enne di Francoforte, aveva indossato agli Europei di Basilea un body a gamba lunga, che copriva le gambe dalle anche alla caviglia, appoggiata dalla Federazione Tedesca di Ginnastica.

Più di recente, anche la nazionale norvegese femminile di pallamano ha gareggiato in pantaloncini, rifiutando di indossare gli slip succinti che costituivano la divisa messa a disposizione dalla Federazione. Un gesto che purtroppo è costato loro una multa di 1500 euro.

Il motivo è facilmente individuabile in accordi economici, di sponsor, mediatici: ragazze col sedere di fuori attirano un maggior pubblico maschile.

E in questo sistema commerciale in cui il corpo femminile è mero oggetto di scambio, chi tutela le ragazze?

Sin da bambine le donne devono fare i conti con il proprio aspetto: i cm, i kg, le taglie, le rughe. La bellezza e l’attrattività fisica diventano una qualità al pari di una competenza.

Lo sport, mettendo in profonda connessione la mente, il corpo e lo stile di vita dovrebbe invece diventare strumento di autoaccettazione. Il corpo, nello sport, deve essere strumento di espressione del talento dell’atleta, non esca per gli appetiti sessuali inconsci di chi dovrà poi comprare un biglietto o un gadget. Lo sport deve insegnare a valutare oggettivamente e ad apprezzare le diverse peculiarità del proprio fisico, combattendo stereotipi estetici che creano solo frustrazione.

In passato, la stessa biologia femminile era considerata ostacolo alla carriera agonistica, il ciclo un vero e proprio demonio. Ecco perchè le bambine venivano forzate a esplodere prima della pubertà, e a mantenere il più a lungo possibile una fisicità acerba, minuta e infantile.

Oggi le cose sembrano stare cambiando, La scelta di un pantaloncino coprente o di un fuseaux lungo non significa mortificare il corpo o celarlo, da bacchettone o puritane. Tutt’altro. Vuol dire avere la possibilità di scegliere come sentirsi al meglio. Scegliere di mostrarsi di più o di meno, scegliere il comfort, scegliere di gestire il proprio flusso mestruale, scegliere di depilarsi o meno.

Scegliere, semplicemente.

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